RAPAPORT

Rapaport: fino al 1978 la valutazione dei diamanti sia nel mercato al dettaglio sia nelle Borse diamanti più prestigiose di Anversa (Belgio), di Tel Aviv (Israele), di Surat (India) e di New York, avveniva in maniera grossolana, in quanto mancava un riferimento ufficiale nelle transazioni.

L’operatore di borsa e gemmologo Martin Rapaport intuì che si potevano individuare dei parametri insindacabili quali il grado di purezza e di colore che, all’interno della medesima classe di peso/caratura, determinano il costo di un diamante nel taglio piu’ utilizzato sia per la gioielleria sia per l’investimento, cioe’ il taglio “a brillante” avente 57 faccette.

Da allora il listino elaborato, comunemente chiamato rapaport o la lista, è il più autorevole e diffuso nelle transazioni. Esso divide i diamanti in gruppi a seconda del peso (da 0,01 a 0,05 e cosi’ via) e stabilisce dei valori in base a purezza e colore delle gemme, espressi in dollari. Viene pubblicato con cadenza settimanale ed esprime valori all’ingrosso al netto delle imposte.

La sua attendibilità resta altissima anche oggi, in un mercato in cui la presenza di fluorescenza o la qualità del taglio sono diventate variabili importanti quanto i parametri di purezza e colore: ciò anche perché nel listino Rapaport è contenuta la sintesi dei numerosi fattori finanziari, politici e valutari che determinano le oscillazioni della materia prima più costosa al mondo, controllata di fatto da un oligopolio di sole 5/6 holding internazionali capeggiate da Anglo Americani / De Beers e della Rio Tinto che estraggono il materiale grezzo per rivenderlo ad una ristretta cerchia di produttori e tagliatori oggi non superiore alle 90 unità,  i cosiddetti sightholders,  “tra le quali non e presente alcuna impresa italiana è in gran parte di nazionalità israeliana, olandese, indiana e nordamericana”.